Scuole di lettura: valgono anche quelle improvvisate? Lo scopriamo al Festival del libro e della lettura di Roma.

Siamo già stati nel ventre di un coleottero, ricordate? Ma non vi avevo mai portato nel terreno su cui è appoggiato. Bene, colmiamo subito la mancanza.

Sotto i grandi coleotteri che formano il complesso dell’Auditorium romano del parco della musica, si estendono gallerie color mattone dalla lieve pendenza che portano in alcune piccole nicchie di ascolto dedicate a incontri intimi, in cui è la parola, più che la musica, a farla da padrone. Così è successo anche lo scorso 15 marzo quando, durante la quinta edizione della Festa del libro e della lettura, un piccolo gruppo di curiosi lettori si sono ritrovati nel Teatro Studio dove Taiye Selasi e Elena Stancanelli avrebbero raccontato il loro modo di leggere un libro, accompagnati da Philipp Meyer, l’autore del libro in questione. Parliamo di The Son (Il figlio appena pubblicato in Italia da Einaudi nella collana Supercoralli), saga familiare ambientata nel Texas, che copre 200 anni di storia americana. Aguzzando le orecchie, abbiamo (ri)scoperto una delle verità più interessanti della lettura: non c’è un lettore che interpreterà allo stesso modo un racconto. L’arte di leggere è decisamente una navigazione. Ma quando ci si trova a fronteggiare l’acqua, non esiste mai un percorso uguale a un altro, anche se in cento seguissimo la stessa rotta. Tempi di lettura diversi, emotività che porteremmo con noi, vita che faremmo entrare nel racconto e racconto che faremmo entrare nella vita, ci renderebbero il percorso unico e squisitamente selvaggio. Ed è questa l’unicità dell’esperienza libro. È naturale quindi scoprire che, a meno del dovuto apprezzamento per il libro di Meyer, Taiye Selasi ed Elena Stancanelli avevano due viste diverse sul romanzo, sugli scrittori cui Meyer si era ispirato, sulle idee che lo avevano guidato e su come si sarebbero trovate a fronteggiare lo stesso impegno se avessero provato a scrivere quella storia. E forse il mancato allineamento fra le due lettrici è stato uno degli elementi più interessanti di questa chiacchierata. Entrambe hanno però apprezzato la ricerca massiva e approfondita (durata alcuni anni) che Meyer ha messo in atto per costruire la sua storia e con essa una parte importante del vissuto del suo Paese, sperimentando anche alcune esperienze estreme (come bere il sangue caldo di un animale) pur di comprendere appieno cosa avrebbe provato un suo personaggio nella stessa situazione. Personaggio che, ci dice l’autore di The Son, deve essere il primo a credere profondamente nella propria esistenza. E, sebbene la fine di questa chiacchierata a tre abbia pericolosamente virato verso un confronto un po’ semplicistico sulla natura della guerra e dell’aggressività umana, come se Meyer, Selasi e Stancanelli fossero d’un tratto divenuti membri del consiglio di sicurezza dell’ONU, questo confronto ha dimostrato che un libro serve anche a farci parlare di “lui”, e, anche questo, è un piacere da non dimenticare. Scuole di lettura insegnano. 

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