Come anticipato alla fine del post di domenica scorsa, anche imago2.0 si prende una vacanza di fine anno. Vi aspettiamo a partire da domenica 13 gennaio 2013, sani e salvi dopo i bagordi di fine anno e dopo essere scampati alla fine del mondo o almeno così parrebbe...
domenica 30 dicembre 2012
domenica 23 dicembre 2012
Natale Affamato
Natale, si sa, è un periodo di
strenne. Offerte speciali, tasse speciali, scortesie speciali, disseminate come
neve fangosa su persone di cattivo umore che dovrebbero, grazie a questo
umidiccio dono, sorridere a denti stretti, così stretti da spezzarsi, insieme
alle bocche e ai desideri, perché tutto si azzittisca, si spenga in una
luminaria di terz'ordine attaccata con lo scotch alla vetrina di un negozio
vuoto. In una città come Roma, che non ha mai creduto agli addobbi natalizi,
alle luci colorate o ai cori festosi e che è lontana molto più di una TAV da
Parigi, molto più di una moneta da Londra e molto più di una speranza sul
futuro da New York, il Natale passa velocemente, ignorato. Non c’è neve qui,
almeno non in dicembre, non ci sono dolci tipici con cui tentare il palato,
come il panettone milanese o gli struffoli napoletani, ma soprattutto non c’è
voglia di credere a una storia di speranza e cambiamento come quella che il
Natale c’impone. C’è troppa fame, non soltanto di cibo e sopravvivenza (che
anche di quella ce n’è e tanta per le strade, davanti alle vetrine e dietro i
portoni), ma soprattutto la fame, dilaniante e spropositata, quella che ti inghiotte,
portandoti oltre ogni tuo imbarazzo, è di idee. Ma non si osa nemmeno parlare
al plurale: fame di idea. Ne basterebbe una, piccola, neanche
troppo dirompente, ma ben salda e larga. Una sponda su cui arroccare qualche
mese, magari un anno, prima di schiacciarci tutti sull'asfalto dentro una
buca, che a Roma ce ne sono milioni. Un contro l’altro, a farci male, pur di
sentire che c’è, sì, forse un po’ di vita scorre ancora sotto le coltri di
parole rinsecchite che ci tiriamo addosso per distanziarci, per ritagliarci un
piccolo solco intorno e dire: «ecco, oltre qui non potete andare. Oltre
questo punto ci sto io e non ci può essere nessun altro.» Così, solo così, ci
sentiamo sicuri, ma lo spazio è poco, anche a Natale, anzi a Natale sembra
diventare sempre meno. Le macchine aumentano, la rabbia aumenta e di offerte
speciali per difendere le nostre barricate se ne scorgono sempre meno. Il nostro
spazio è diventato sacro, l’unico a essere celebrato a Natale, come in
qualsiasi altra giornata del calendario. E allora forse non è vero che Roma non
lo festeggia il Natale, sono gli altri a limitarsi a celebrarlo, questo Natale
di sottrazione di spazio altrui, un solo giorno all'anno.
domenica 16 dicembre 2012
Una zolletta di ispirazione in una tazza di notte.
Qualche tempo fa mi sono immerso
con sommo piacere in uno stralcio di un’intervista ad Antonio Tabucchi, in cui
lo scrittore si definisce un solitario
contraddittorio. Da un lato troppo amante della solitudine e della concentrazione
che in essa si nasconde, dall'altro spaventato dalle sue conseguenze estreme:
l’auto-analisi spinta all'eccesso, le ossessioni, le piccole manie che si
mutano in psicosi e che ci fanno temere di rimanere insonni, per l’intera notte,
a cercare di controllarle. Lì, con gli occhi spalancati a registrare rumori
inesistenti, mentre la nostra casa dorme, la città si accuccia nel ricordo
della giornata appena strombazzata via e il vento sembra placare se stesso e
ogni sogno che gli è stato lanciato addosso da occhi tristi, un tempo troppo
arrabbiati, ora soltanto delusi.
Ultimamente resto spesso sveglio
di notte. Non che non mi piacerebbe dormire, è che proprio non riesco a
trattenere il pensiero. So che molti di voi saranno stati svegli proprio in quegli
stessi momenti, a ballare, bere, camminare, fare l’amore, ridere, urlare. Io
aspettavo che la Saudade, quel misto
di malinconia e nostalgia di cui parla spesso Pessoa e in cui lo stesso
Tabucchi si sarà immerso, decidesse cosa fare di quelle ore, della
finestra cui mi affacciavo in una notte ancora affamata di sospiri.
Vagare fra le foglie di platano,
dove una piccola idea potrebbe incastrarsi, dove le foglie non sono vere
foglie, ma solo altre idee, le vostre idee, quelle che non siete riusciti a
trattenere nel letto e che ora, mentre vi siete finalmente addormentati,
sono a mia disposizione. Antiche passioni, eterne delusioni, possibili,
sì, ancora possibili riconquiste, racchiuse in altre notti in cui uno di voi si
metterà a guardare le mie affannate ricerche; senza avere bisogno di una buona ragione, senza
curarsi del sonno che si sta perdendo, senza aver paura di ciò che si sta
osservando, pronti a gustare la zolletta di ispirazione che qualcuno ha versato
per noi nella tazza della notte. Gabbiani gracchiano con la pancia illuminata
dal riverbero delle vostre luci, che ora, mentre la notte si sta disperdendo,
sembrano soltanto una vostra creazione, io non li avrei mai inseriti fra i miei
pensieri. Beh, complimenti, proprio un bel lavoro, sembrano veri.
«Ho visitato e ho vissuto in molti altrove. E lo sento come
un grande privilegio, perché posare i piedi sul medesimo suolo per tutta la
vita può provocare un pericoloso equivoco, farci credere che quella terra ci
appartenga, come se essa non fosse in prestito, come tutto è in prestito nella
vita.» (1)
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domenica 9 dicembre 2012
Padroni servi e Servi padroni.
Cosa fa di una persona un “servo” e cosa invece lo consacra “padrone”?
Il denaro, il potere, la capacità di guidare o la necessità di essere guidati?
E soprattutto, è possibile coprire entrambi i ruoli allo stesso tempo? Avere un padrone che ritrova nella vessazione del suo servo l’unico strumento per dichiararsi ancora vivo, rendendo il servo necessario?
Secondo Ronald Harwood (scrittore e sceneggiatore sudafricano, londinese d’adozione, nonché ex servo di scena in una compagnia shakespeariana nei primi anni ’50) non solo è possibile, ma probabilmente è il requisito principale per creare un dialogo che non ammette resistenze nel suo pubblico, che si fa temere, odiare, andando a perlustrare meticolosamente ogni sbavatura dell’animo umano. Chi si è trovato negli scorsi mesi ad assistere all’ultima messa in scena di Servo di scena (The Dresser – trasposto anche sugli schermi in un film di Peter Yates) di Harwood in tournée con la compagnia del teatro stabile di Brescia, da ultimo al Teatro Argentina di Roma, si è trovato a fronteggiare un testo ancora molto attuale, oserei dire necessario in una società come la nostra, in cui il dichiarato e l’agito non solo non vanno all’unisono, ma viaggiano in due universi paralleli che si guardano con il dovuto sospetto. Sebbene abbia quasi trent’anni e sia ambientato negli anni ’40, il testo riesce a risucchiare l’attenzione del pubblico fin dalle prime battute. Mostrando il dietro le quinte di una barcollante compagnia shakespeariana che insiste a tenere le sue rappresentazioni sotto i bombardamenti nazisti, la pièce fa leva sullo spiccato voyeurismo proprio dell’essere umano, che non riesce a contenere la curiosità di scoprire cosa si nasconde dietro le persone.
Il “padrone” di questa storia è Sir attore shakespeariano un tempo famoso, un tempo (forse) talentuoso, un tempo desiderato e fatto sentire necessario, che si rende conto di essere alla fine della sua carriera, capocomico di una scalcagnata compagnia, in cui lui spicca con facilità, forse troppa, e il cui unico problema è capire se ci sono abbastanza attori per coprire tutti i ruoli o se Sir sarà in grado di sollevare la sua compagna (non più eterea come un tempo), nonché co-protagonista, nell’ultimo atto della messa in scena di King Lear. La consapevolezza del crepuscolo ormai imminente, porta Sir a rischiare il forfait, ma solo per sentire che tutti gli altri lo vogliono ancora, che ne hanno bisogno per non perdere quel poco di credibilità che resta alla compagnia. In questo copione nel copione, s’innesta la figura più interessante e sfaccettata creata dalla penna di Harwood: Norman, il “servo” di scena in questione, che accudisce e rincuora il suo Sir, difendendolo dalle critiche degli altri attori, dalle pretese della compagna, ma soprattutto da Sir stesso, facendosi così attore principale nel testo che il suo padrone ripercorre ogni giorno, insieme ai suoi rituali di trucco, vestizione e negazione, portando Norman a diventare la memoria del suo padrone e quindi padrone del padrone stesso, che senza il suo servo non sa stare.
Tommaso Cardarelli, Norman nella messa in scena di Franco Branciaroli, risulta perfetto interprete della sarcastica e scoppiettante relazione con il suo Sir, infondendo al personaggio nuova linfa e facendo intravedere al pubblico tutte le variazioni di colore che possono nascondersi dietro un rapporto umano.
E voi? In quale categoria preferireste stare?
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domenica 2 dicembre 2012
I “Quant'altro” e la miniaturizzazione della lingua italiana.
Qualche giorno fa mi sono trovato
nel bel mezzo di un meeting loop.
Con questa anglofila espressione mi
riferisco a quelle situazioni, ahimè sempre più comuni per un popolo che ama
parlare molto e ascoltare poco, in cui si passa tutta la giornata intrappolati
in riunioni per lo più inutili e prive di qualsiasi possibile risultato.
Situazioni in cui tutti sanno quello che andrebbe fatto, ma nessuno osa
dichiararlo, tanto meno metterlo in pratica.
La responsabilità è una brutta
bestia, soprattutto per i capi che, con abnegazione e marmorea
perseveranza, si limitano a schivarla e attendere.
In queste situazioni la necessità di sopravvivere prende il sopravvento e porta i malcapitati coinvolti nel meeting
loop a concentrarsi sul giorno successivo nella speranza in un domani
migliore che Leopardi giustamente ridimensionava e a cui, invece, noi italiani
siamo comodamente assuefatti.
Se però si volesse stoicamente
concentrarsi sull'altrui eloquio, non per decodificarne il contenuto, ma per
una piacevole e desueta analisi del dominio sintattico dei partecipanti al
meeting in questione, si scoprirebbe che esso è fatto al 90% di emotività e
ripetitività a discapito dei più necessari nessi causali fra le preposizioni.
Sareste costretti allora a enfatizzare i vezzi linguistici dei vostri colleghi
di meeting loop, scoprendo che dal gergo politico (tanto per prendere a
riferimento un linguaggio odiato e stigmatizzato dal cittadino) al gergo
collettivo il passo è compiuto.
Correva l’anno 2009, quando un
profetico Paolo Di Stefano, da acuto osservatore dell’evoluzione linguistica
nel nostro paese, dalle pagine de Il Corriere della Sera ci metteva in
guardia dal virus
del “quant'altro”, locuzione invasiva e onnipresente, che dopo un po’
inizia a scavare nelle vostre orecchie come se volesse sottrarvi ogni altro
fonema. E allora proverete a contarli questi “quant'altro”: dieci, quindici, ventitré, trentadue e non sarete neanche al giro di boa del vostro meeting
loop. Scoprendo poi che ognuno lo usa a modo suo, a significare “eccetera”,
ma anche a sostituire altre parole, dal “quant'altro” risucchiate e dalla mente
dimenticate, fino a conglobare in sé intere preposizioni e probabilmente il
senso stesso di tutto quel parlare.
Immaginerete allora di vedere i
vostri figli fra una decina d’anni, a scuola, con davanti un Tablet ultra-leggero e ultra-luminoso (anche sugli “ultra” ci sarebbe da parlare…) che
forse sarà morbido e assumerà qualsiasi forma, come il pongo, ma che dentro
avrà un'unica parola: “quant'altro”. Locuzione sì grande, da poter immaginare incluso
in essa ciò che si vuole. Così non ci saranno alunni e professori incapaci,
perché per qualsiasi domanda esisterà una sola e confortevole risposta. “Qual
è il quant'altro del quant'altro?” “Quant'altro.” Risponderanno i
vostri figli in coro, davanti alla domanda del professore. Esatto.
“Ieri hai fatto quello che
dovevi e quant'altro?” “Quant'altro.” Risponderete voi al vostro
capo. Esatto.
“Mi desideri e quant'altro?”
“Quant'altro!” Esclamerete con occhi vogliosi al vostro partner. Esatto
ancora e quant'altro.
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