La scelta

Ed eccoci al passo più difficile: continuare a scrivere, trasformando l’incipit in una scelta.

Tuffarsi in un mare in tempesta, senza esperienza di nuoto e con un salvagente più piccolo del necessario può sembrare estremamente semplice. È nuotare senza sosta fino ad un ignoto approdo, pronti a ributtarsi in acqua se la terra conquistata non è la nostra, la sfida più grande che attende l’aspirante scrittore.



Visto che la maggioranza si è espressa, partiremo dall’incipit n.2.


E come al solito: “A voi la prossima mossa!



“Clarissa!”


“Clarissa, mi senti? Smettila di imbambolarti e vieni giù, c’è gente.”



“C’è gente.” Clarissa poteva vederli quei suoni. Si conficcavano nelle sue orecchie chiedendo attenzione. Pretendendo di essere decodificati in un pensiero, utilizzati per attivare un’azione.


“C’è gente.” Suo padre voleva un aiuto in negozio. Voleva che sua figlia smettesse di isolarsi, resistendo ore senza parlare, nascosta in una soffitta piena di vecchi pezzetti di legno. Archetti rotti, appartenuti al precedente proprietario del negozio.


Un archettista. Che strana parola. Clarissa pensava che le parole avessero un’anima. Ce n’erano di buone o cattive. Arroganti o timide. Gioiose, pronte ad esploderti in bocca, spalancandosi in una risata, o aspre, ideate per ferire l’interlocutore. “Archettista”. Clarissa doveva ancora decidere come classificare questa parola, ma di sicuro le piaceva.


Mentre scendeva le scale che l’avrebbero riportata sullo stesso piano del mondo rispetto a suo padre, Clarissa dondolava gli ultimi pensieri, rigirandoseli nella testa per capire in quale idea potessero incastrarsi meglio.


Poi saltò sull’ultimo gradino, aveva deciso: avrebbe trovato il modo di conoscere l’archettista. Solo così avrebbe potuto classificare quella parola con la dovuta attenzione. Solo così sarebbe stata sicura di associare a quel suono la giusta sensazione.


“Eccomi papà, mi avevi cercato?”


Sebastiano evitò di incrociare gli occhi di sua figlia. Aveva imparato a distrarsi strategicamente all’arrivo di Clarissa, come se lucidare il cristallo del bancone o ripiegare i grembiali bianchi con impresso il nome della sua pasticceria, diventasse un’operazione vitale per il buon esito dei suoi affari.


Non aveva mai capito perché, ma quegli occhi grigio azzurri lo destabilizzavano. Uno sguardo di Clarissa riusciva a scomporre la volontà paterna in un esercito di dubbi, determinati, lucenti, protetti da un’armatura di commiserazione per quel banale ometto. Un vecchio pasticciere che si preoccupava di cose talmente concrete da sfigurare dinanzi agli arguti silenzi di sua figlia.

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